Adam il sudanese

MARZO 2021

L’autore

Annalisa Magone
Ad | Torinonordovest



Questo è un articolo diverso. Si tratta di una storia che mi ha raccontato Antonio Sansone, a lungo dirigente sindacale delle tute blu della Cisl, dal 2019 prestato al Terzo Settore e oggi segretario generale della Fondazione don Mario Operti. Per circa due anni, ha messo le sue competenze al servizio di un progetto torinese che ha operato per l’integrazione di una ampia comunità di migranti – più o meno ottocento “ospiti” di un complesso di palazzine (nel quartiere chiamato ex MOI) costruite per uno dei villaggi olimpici nati nel 2006.

Per la popolazione del MOI, Antonio Sansone ha fatto né più né meno di quel che ha fatto per quasi trent’anni da sindacalista: ha cercato soluzioni occupazionali, valutato opportunità di formazione e qualificazione, messo in campo la rete caratteristica del sindacalista – colui che interviene quando il singolo non riesce da solo a trovare una collocazione nel mercato del lavoro… o, se preferite, quando si corre il serio rischio di dipendere dall’aiuto compassionevole del prossimo vita natural durante. È stato precisamente questo il senso ultimo del progetto: cercare una via per inserire nella società, in quanto cittadini nella pienezza di diritti e doveri, persone che non hanno propriamente scelto di lasciare tutto, più che altro hanno dovuto.

La storia riportata di seguito colpisce, non perché si tratti d’una storia edificante, pur in presenza di un lieto fine, ma perché è un caso applicato: è l’impresa ibrida vista dalla prospettiva del suo fruitore finale.

SCENA I

Adam è un sudanese di 44 anni, con una moglie e una figlia piccola che vivono in Egitto; il suo percorso migratorio lo aveva portato in Libia dove ha lavorato dal 2005 al 2011. Nel 2011 la Libia è entrata in una condizione di instabilità politica, a cui ha fatto seguito anche la deposizione di Gheddafi. Molti migranti, nel loro percorso, avevano trovato lavoro e stabilità in Libia; questi avvenimenti li hanno rigettati nel pericolo e nella povertà, facendo loro intraprendere nuovamente il percorso migratorio. 

Alla luce di questi fatti, Adam è salito su un barcone di trafficanti ed è approdato a Lampedusa nel 2012. Dall’isola, per effetto della redistribuzione nazionale, è approdato nello Sprar di Settimo Torinese, un comune dell’hinterland di Torino. Scaduto il periodo di permanenza, si è trovato in strada.

SCENA II

Giorgio Di Centa e Enrico Fabris, insieme al resto della squadra olimpica italiana, alloggiavano alla palazzina blu. Il primo ha poi vinto la medaglia d’oro nella 50 km di sci di fondo; il secondo è diventato campione olimpico di pattinaggio su ghiaccio. Le 11 palazzine del villaggio olimpico delle Olimpiadi Invernali Torino 2006 erano state pensate per ospitare 70/80 atleti ciascuna. Erano venute su come funghi nel quartiere chiamato MOI, con il fiato corto per il rispetto delle scadenze di consegna e il cartongesso a separare gli spazi interni.

MOI è l’acronimo di Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso – un’area edificata negli anni ’20 del Novecento, con la torre littoria e l’orologio che la sovrastano ancora oggi. Nel 2005, il Comune di Torino aveva deciso il trasloco dei Mercati Generali in un’area periferica della città, destinando il MOI a divenire Media Center e villaggio degli atleti. Terminate le Olimpiadi, una parte delle strutture non erano state immediatamente riutilizzate.

A partire dal 2013, l’emergenza umanitaria dell’Africa Sub Sahariana ha generato importanti flussi migratori verso l’Italia: oltre un migliaio di migranti hanno occupato quattro di quelle palazzine – la Blu, la Gialla, la Grigia e la Marrone. Nella palazzina Blu, che ospitava gli atleti italiani, trovarono ricovero oltre 250 migranti, tra questi Adam il sudanese.


Nel periodo estivo, i giacigli si allestivano anche negli spazi aperti: i quattro edifici arrivarono ad ospitare fino a 1000 persone e negli spazi in cui gli atleti stavano in 4, i migranti stavano in 12. L’occupazione dell’ex villaggio olimpico di Torino è stata la più grande mai vista in Europa. Nel 2017, a quattro anni dall’occupazione, nelle palazzine avreva preso forma una specie di villaggio africano extra moenia ed è allora che nasce il Progetto MOI (l’acronimo diventa Migranti Opportunità di Inclusione) promosso da Comune di Torino, Prefettura di Torino, Regione Piemonte, Città Metropolitana di Torino, Diocesi di Torino e Fondazione Compagnia di San Paolo.

La sovrappopolazione delle palazzine aveva generato una convivenza disagiata e talvolta pericolosa: materassi dappertutto nei corridoi, sui pianerottoli, sui balconi e sulle terrazze; condizioni idrauliche precarie, servizi igienici intasati dai quali tracimano le acque nere nelle cantine e negli interrati, sui materassi e sulle masserizie. Ci sono mattine in cui i migranti, scendendo dal letto, mettono i piedi nelle fogne.

SCENA III

Il Progetto MOI ha l’area dedicata al lavoro, che serve a costruire percorsi di inclusione sociale e autonomia a favore dei migranti, e l’area delle accoglienze, il luogo in cui i migranti trovano ospitalità quando lasciano le palazzine occupate. Ma il progetto è più complesso: altre aree d’intervento sono quella documentale, quella sanitaria, quella dell’abitare che sostiene i migranti nel raggiungimento di una propria autonomia abitativa.

In questo scenario, nella primavera 2019 l’area lavoro promuove un corso propedeutico all’inserimento lavorativo in FCA. Vengono selezionati quindici candidati per una attività formativa di 400 ore che comprende elementi di meccanica generale (presso i centri salesiani) e apprendimento del processo produttivo e del WCM (nelle aule di FCA). Adam il sudanese è uno dei quindici.

Il villaggio africano extra moenia accampato alle palazzine ex MOI brulica di vita; sono stati avviati due parrucchieri, tre ristoranti, cinque spacci di vendita di bibite, una ciclofficina e varie altre attività di economia informale. Il cortile è occupato dai carretti dei migranti che girano tutto il giorno per raccogliere rottami di ferro, elettrodomestici usati, suppellettili varie, praticando una sorta di economia circolare – quello che noi buttiamo, può ancora andar bene in Africa o essere rivenduto nel circuito dei mercatini delle pulci a Porta Palazzo. Molta della economia individuale dei migranti si regge con l’elemosina ricevuta davanti ai supermercati. Alcuni hanno commesso piccoli reati, su tutti grava la condanna delle rimesse di denaro verso le famiglie e i paesi di provenienza.

SCENA IV

Il corso di formazione procede bene, i ragazzi sembrano desiderosi di apprendere, i ritorni da FCA positivi, ma per Adam qualcosa non va.

Un giorno si presenta alla sede del Progetto MOI dentro le palazzine occupate, è gentile e cordiale, si accomoda e spiega che deve lasciare il corso perché l’impegno quotidiano di 8 ore non gli lascia spazio per procurarsi un reddito di sussistenza. Lo invitiamo a portare pazienza, a non lasciare un corso che in capo a due mesi si sarebbe concluso con un lavoro, consentendogli un vero salto verso l’autonomia, l’uscita dal progetto, il ricongiungimento alla famiglia. Dice che non può aspettare: sua moglie è prossima al parto, lui deve contribuire alla nascita della bambina. Gli domandiamo «ma di che cifra si tratta?», risponde «150 euro al mese». È pronto a rinunciare all’opportunità di essere assunto in FCA entro due mesi per una cifra del genere.

Il Progetto MOI ha una ramificata e importante rete di partner; tra questi, la Fondazione Don Mario Operti, attiva a Torino e in Piemonte anche nel campo del microcredito. Sondiamo la possibilità di un “prestito d’onore”, quindi convochiamo Adam in ufficio con la soluzione al problema: otterrà 1000 euro per fare fronte alle esigenze della nascitura, concluderà il corso di formazione e una volta assunto comincerà a restituire il prestito.

Adam è ritroso, la sua dignità e il senso dell’onore non gli consentirebbero di accettare. Spieghiamo che deve farlo, proprio per dare un futuro alla sua bambina e alla sua famiglia. Gli si illuminano gli occhi, la cosa è fatta.

SCENA V

Adam lavora da 15 mesi allo stabilimento FCA di Atessa, in provincia di Chieti, insieme ad altri quattro ragazzi che hanno partecipato al corso. Sono stati adottati dalla comunità aziendale locale; un delegato sindacale ha offerto in affitto la sua casa natale, dalla quale si sarebbe trasferito. Aisha ha 18 mesi. Adam sta svolgendo le pratiche per il ricongiungimento familiare.


ps : Il valore di questa azione è stato riconosciuto dall’UNHCR nell’ambito del premio Welcome – Working for Refugee Integration assegnato a 121 aziende che nel 2019 si sono contraddistinte per aver favorito l’inserimento professionale dei rifugiati e per aver sostenuto il loro processo d’integrazione in Italia. Della vicenda hanno parlato anche La Presse e l’Avvenire.