50esima Settimana Sociale dei Cattolici in Italia
Sotto il titolo Al cuore della democrazia parte la 50^ Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, che si terrà a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024. Apputamento tradizionale della Chiesa Cattolica, la Settimana Sociale è da sempre crocevia di persone e progetti diversi, dilogo e condivisione.
Lo scopo della Settimana Sociale è valorizzare la presenza e l’impegno delle Buone Pratiche, ideate e promosse da realtà di impegno sociale, gruppi e associazioni, istituzioni, imprese, pubbliche amministrazioni impegnate nella cura di un bene comune. Le buone pratiche selezionate prtecipno al percorso di preparazione, offrendo un proprio contributo di riflessione che valorizzato nei Laboratori della Partecipazione durante l’appuntamento di Trieste.
La Fondazione don Mario Operti è presente con un proprio stand al Villaggio delle Buone Pratiche.
Tutte le informazioni sul sito dedicato settimanesociali.it
La crisi della politica, in ogni sua declinazione e ad ogni latitudine è una crisi connessa con la crisi del linguaggio e con la crisi della dimensione spirituale che anche le nostre comunità cristiane si trovano a vivere. Abbiamo forse smarrito la strada. Sicuramente abbiamo scambiato la curiosità con l’indiscrezione, l’interesse con l’attrazione, la partecipazione con il coinvolgimento, incantati dal fascino seducente delle immagini e dalla fascinazione della velocità. La prerogativa implicita di ogni nuova tecnologia è proprio la velocità, serve a “fare prima”; anche quando “fa di più” è per “raggiungere prima” un obiettivo. Ma siamo sicuri di sapere sempre se la meta che si raggiunge prima è quella giusta? Soprattutto, chi ha deciso la meta?
Avevamo lampade per illuminare il mondo, ma ci siamo illusi guardando la luce che siccome noi non vedevamo il buio, e non avevamo paura, bastasse; ma così non ci siamo presi cura ne di noi, ne di chi giaceva nel buio e attendeva il nostro soccorso, ne delle lampade di cui abbiamo consumato l’olio.
Le lampade non vanno guardate vanno usate per illuminare e per illuminarci. Così il Libro che diciamo sacro è tale se lo usiamo per illuminare non se lo guardiamo come un feticcio perché magicamente ci protegga o esaudisca i nostri desideri. Se l’uomo di Nazareth ha rovesciato il paradigma che metteva al centro il guardare al libro preferendo riscriverlo con la propria vita, altrettanto possiamo e dobbiamo rifare oggi, nel tempo in cui la tecnologia scrive e riscrive al posto dell’umano. Se non facciamo così rischiamo di confonderci e abbandonare la ricerca della strada per la rassicurante consolazione della luce. Così rischiamo che la riscrittura affidata all’artefatto tecnologico sia solo una ri-produzione delle cose già avvenute che hanno una probabilità più elevata di entrare nel meccanismo, nel algoritmo di ricerca delle soluzioni.
Oggi siamo in questa condizione, molti guardano all’IA, questa straordinaria protesi che accelera la soluzione di problemi che parevano faticosissimi e che richiedevano sforzi a volte infiniti, come “prodotto Dio”, il migliore dei prodotti, il prodotto che non ha eguali, che sembra essere nelle mani del suo “produttore”: l’uomo. In questa visione, da animali a dei, l’uomo illude se stesso di governare l’inconoscibile. In analogia a una spiritualità infantile che si concentra su una religiosità in cui si agiscono atti e ritualità che sanno di magico mentre cercano di “guadagnare” il favore di un “genitore imbronciato” guardando ad un Dio-prodotto. In realtà entrambi gli atteggiamenti guardano in dietro, al passato e non riescono ad immaginare l’impossibile perché preferiscono delegare il lento e tenace [1] superamento delle difficoltà alla surroga della tecnologia.
Vi sono però alcuni aspetti che vale la pena riprendere. Il primo è che la tecnologia più potente inventata dall’uomo è la parola. E il Libro sia quello primo, l’antico, sia quello riscritto e attualizzato da Cristo, non sono cristallizzazioni di parole o di gesti, ma luci che illuminano di senso la vita, gioiosa a volte, densa di sofferenza altre, intrisa di speranze spesso, della collettività tutta. Del singolo come del gruppo, della donna come dell’uomo. Dell’adulto come del bambino. Della famiglia umana comunque composta, sani e malati, giusti ed ingiusti. Ma vivi. Vivi in un mondo vivo. Della cui vita però facciamo fatica ad accorgerci. E soprattutto con cui fatichiamo a comunicare. Questa è la riscoperta su cui la politica deve concentrarsi. Il mondo è vivo. La vita è più grande della piccola esperienza biografica di ciascuno. Ora scopo della politica può essere quello di riaccendere la luce per la società riscrivendo direttamente questa storia. Inzuppandola di spiritualità. Immergendola, che poi si diceva “battezzare” (in greco) nella vita “ruah” o Spirito se vogliamo dargli un nome conosciuto.
Forse non riflettiamo abbastanza sul fatto che l’intelligenza non è una qualità individuale, ma una caratteristica sociale, cioè una qualità della relazione tra soggetti. Soprattutto nel rapporto con le macchine che hanno appreso ad apprendere, ci illudiamo e impropriamente attribuiamo intelligenza ad artefatti che sono in grado rispondere rapidamente (di nuovo la velocità) a un grandissimo numero di domande ma non sanno “porsi domande”.
Se infatti intelligenza non è dare risposte, ma saper fare e, soprattutto, saper farsi domande, la tecnologia anche la più strepitosa, anche quella “generativa”, non è in grado di “porsi” domande. Non conta trovare risposte, per queste basta una biblioteca con un numero sufficiente di testi. Conta trovare le domande nuove, quelle che la tecnologia “per ora” ancora non fa. Le domande di senso. Per questo come atto politico è imprescindibile investire su una scuola che insegni a “porsi domande”. Le risposte fornite oggi sono tutte vecchie, arrivano dalla scuola della storia, e sono dedotte da algoritmi che hanno regole di inferenza, utilizzano meccanismi probabilistici per confrontarle con altre già formulate ma non derivano da sogni. Sogni di felicità per se e per altri. Sogni condivisi. Sogni di senso.
Vi sono però due aspetti che vanno affrontati per tempo. Quali rischi, senza che noi ne siamo consapevoli, incombono per la democrazia in connessione con le nuove tecnologie che sono entrate nella nostra vita come protesi insostituibili, quasi come nuovi organi trapiantati, pensiamo allo smartphone? Quali rischi derivano sempre per la democrazia e per la dignità dell’uomo sempre in relazione a quelle che semplicisticamente chiamiamo intelligenze artificiali? Non esistono risposte semplici e neppure facili ad entrambe le domande. In un recente fortunato “apologo” “This is water” due pesci giovani nuotando incontrano per caso un pesce anziano che li apostrofa dicendo “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?”. I due pesci giovani continuano a nuotare e dopo un po’ uno sorpreso e un po’annoiato si rivolge all’altro e gli dice “Che diavolo è l’“acqua”?”.
La consapevolezza non è una conquista definitiva per questo il secondo investimento politico è sulla formazione continua degli adulti. L’”acqua-smartphone” è quella tecnologia che oggi vede pochissimi attori disporre del controllo pressoché totale dei contenuti trattati da questa tecnologia, soprattutto che non lascia libertà di scelta circa le modalità di fruirne o non fruirne (sempre più operazioni “socialmente rilevanti” sono costrette ad utilizzare l’ambito di questa tecnologia dai pagamenti al riconoscimento, solo per fare due esempi), che non sono spesso realmente inclusive (si pensi alle difficoltà psichiche, motorie e fisiologiche [2], per gli anziani ad utilizzare questa tecnologia o per altri soggetti fragili non sempre prese in considerazione) ed infine che sono intrusive della sfera personale ma non sono trasparenti ne liberanti circa la possibilità di escludere queste intrusioni da parte dell’utilizzatore (si pensi al numero sempre crescente di sensori di cui uno smartphone dispone, che consentono una capillare “profilazione” dell’utente ed a quanti di questi sensori possono essere disattivati dall’utente, praticamente quasi nessuno).
Queste premesse depongono per una lettura scarsamente democratica dell’ambiente “acqua-smartphone” considerato che la democrazia presuppone scelte libere ed informate, e lo strumento in questione non pare garantire sufficientemente nessuna delle due caratteristiche.
Circa la seconda domanda le possibili risposte sono ancora più articolate. Esistono però proprio in questo contesto alcuni segni di speranza che aprono addirittura degli orizzonti nuovi per la politica e per le sue forme di decisione collettiva. Uno strumento come l’IA sistematicamente innervata di algoritmi eticamente sostenibili (la terza linea di azione) può essere un utile ausilio per nuove forme di decisioni collettive: eque, libere ed informate, sino ad ora poco praticabili su larga scala perché troppo lente e complesse.
Da ultimo ma non meno importante appare il tema della sostenibilità della tecnologia quella nuova non meno di quella tradizionale. In questo senso “il sabato è fatto per l’uomo” e la precedenza non può essere data alla tecnologia a scapito della vita complessivamente intesa. Predazione di materie prime, alterazione degli ambienti terrestri e marini (si pensi alla posa dei cavi o dei data center), sono prezzi che non possiamo trasferire a nessuno né ora ne nel futuro. Ne va della vita. E noi vogliamo stare da questa parte.